Approfitto dell'arietta che oggi soffia nella mia città per dedicarmi alla stesura di una nuova recensione, anche se chiamarla recensione mi sembra piuttosto eccessivo; quelle con cui io imbratto le pagine virtuali di questo blog sono semplici chiacchiere, discorsi che potrei fare tranquillamente con un amico o un'amica davanti a un gelato, o un bicchiere di the freddo. Un mio amico, davanti alla mia indecisione sul rendere le recensioni magari un po' più professionali, mi ha gentilmente ricordato che dopotutto non sono una critica. Tuttavia io non sono ancora così convinta del mio stile, ma dopotutto sono solo agli inizi di questo blog; se avete consigli (sullo stile, su cosa recensire, su un po' tutto) e critiche costruttive, lasciate pure un commento e sarò felice di capire come poter migliorare :) Detto questo, passiamo alla recensione di oggi. Il telefilm di cui oggi desidero parlarvi è "Generation kill", una miniserie statunitense tratta dall'omonimo libro di Ewan Wright. Inizialmente titubante su questo titolo (suggeritomi dalla stessa persona che mi ha suggerito "The Following"), mi è bastato guardare il primo episodio per capire che sarebbe stata una fra le mie serie preferite; quindi, come sempre, parliamone!
La trama: ci troviamo al seguito della compagnia Bravo del 1st Reconnaissance Battalion (il Primo Battaglione da Ricognizione) dei Marines americani. Alla compagnia viene assegnato un giornalista del Rolling Stone, Ewan Wright, incaricato dalla propria testata giornalistica di stendere un resoconto sull'operazione in corso; fra attrezzature non adeguate, obiettivi puntualmente modificati all'ultima ora e interminabili attese sotto il sole, il giornalista imparerà a farsi accettare dai ragazzi della compagnia Bravo, scoprendo che dietro quell'uniforme si nascondono spesso delle persone più profonde di quanto possa sembrave. Fa da sfondo a queste vicende un Iraq distrutto dalla guerra, gli esodi della popolazione e la diffidenza di un popolo che, più che liberato, si sente invaso.
Commenti vari&eventuali: la prima cosa che mi ha colpito di questa serie tv è il suo realismo. I dialoghi dei vari personaggi, così semplici e immediati, sembrano tipici di un documentario piuttosto che di una serie tv; ottima anche la scelta di includere nel cast dei veri Marines (uno fra tutti, Rudy Reyes), che contribuisce ad aumentare il livello di realismo del telefilm. La sensazione che si ha guardando questa serie è quella di una completa immersione nelle vicende che essa narra: ad un certo punto ci si sente parte della compagnia Bravo, parte del cameratismo che vi regna. Seppur i personaggi sembrino incarnare lo stereotipo del Marine tutto muscoli e poco cervello, la psicologia di ciascuno esce fuori quando uno meno se lo aspetta e all'improvviso lo spettatore si ritrova davanti non più un ammasso di muscoli ma un ragazzo invischiato in una situazione più grande di lui. Ne è un esempio il personaggio di Trombley: all'inizio della serie sembra semplicemente un fanatico della guerra, un ragazzo a cui è stato fatto il lavaggio del cervello per inculcargli un patriottismo estremista, poi ci si rende conto che dentro quella guerra lo sta letteralmente uccidendo. E come dimenticare Capitan America? L'emblema di una mente fragile che cede agli orrori della guerra e si lascia completamente trascinare dalla paranoia. Ho apprezzato che nessun personaggio della compagnia venga fatto morire, seppur ammetto di non sapere se sia stata una scelta della serie o se rispecchi realmente gli eventi accaduti. Particolare (e molto apprezzata) l'idea di inserire le comunicazioni originali della compagnia in ogni episodio, così come quella di non creare una colonna sonora, lasciando che siano i personaggi stessi a far della musica, cantando o stroppiando canzoni nel corso delle puntate. In conclusione ho molto apprezzato questa serie tv per il realismo con cui presenta l'invasione dell'Iraq da parte degli Americani: qui la guerra viene presentata con i suoi aspetti più crudi, non solo con immagini shock (emblematico il corpo della bambina al lato della strada) ma anche e soprattutto con l'introspezione dei personaggi, spesso guidata dal giornalista Ewan Wright che a mio avviso incarna il Grillo Parlante della situazione. Non credo che la serie sia propagandistica per la guerra, anzi a mio avviso è una critica velata per ciò che è successo e che sta ancora succedendo.Come dice la famosa frase di Arthur Chamberlain «In guerra non ci sono vincitori, ma tutti perdenti, qualunque parte possa vantarsi di aver vinto». E una fra le ultime scene dell'ultima puntata della serie sembra incarnare alla perfezione questa massima.
Note: la miniserie è formata da un'unica stagione composta da 7 episodi della durata di circa 60 minuti ciascuno. In Italia è andata in onda per la prima volta dal 14 giugno del 2009 sul canale Steel di Mediaset Premium (ma sì, se ve lo state chiedendo io l'ho vista solo recentemente, circa qualche mesetto fa) mentre in America è stata trasmessa sulla rete HBO dal 13 luglio del 2008. Nel 2009 ha vinto 3 Emmy Award: migliori effetti speciali per una miniserie o film tv, miglior sonoro per una miniserie o film tv e miglior montaggio sonoro per una miniserie o film tv.
serie molto carina, e anche divertente, ho letto il libro da cui e tratta ed e quasi completamente fedele, poi la scelta di far recitare alcuni ex marine e molto azzeccata, la rende realistica, perchè non è un vero e film di guerra come c'è lo immaginiamo noi, ma si tratta di una aerei che rappresenta ciò che hanno passato li davvero, e questo la rende reale, mostra i soldati nella loro quotidianità e non come semplici supereroi alla stallone
RispondiEliminaCiao, come vedi abbiamo cambiato piattaforma, ma non per questo mi dimentico di rispondere ai commenti! Non sapevo avessi letto il libro, mi incuriosisce e probabilmente lo metterò nella lista delle letture future!
EliminaCome sempre ti ringrazio per il graditissimo commento, e alla prossima recensione :D
e tratto dai racconti dello stesso giornalista Evan Wright, ha voluto scrivere il libro dopo questa esperienza nel 2007, raccontando quanto già scriveva negli articoli per il rolling stone, ne vale la pena ;)
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